Nicola Micieli
Una storia incisa lunga oltre mezzo secolo
In ogni fase della sua vita di artista e senza soluzione di continuità, Sciavolino ha inciso in parallelo e in stretta correlazione stilistica e poetica con il lavoro scultoreo, ovviamente nelle rispettive specificità tecniche e linguistiche. Pur cospicua, la sua opera incisoria è ancora oggi poco nota. Invero, Sciavolino l’ha mostrata di rado, sempre parzialmente e a corredo della scultura, avendo inciso per progetti editoriali, committenze e destinazioni mirate, più che per alimentare i circuiti mercantili della grafica d’arte pensando a un pubblico di amatori più genericamente inteso.
Del resto, le uniche due personali italiane di sole incisioni le ha ordinate nel 2001 e 2004 nella sua Sicilia. Ai primi anni Ottanta ne aveva tenute alcune all’estero presso Istituti Italiani di Cultura. È davvero incredibile questa sorta di latitanza, considerando l’entità e il livello, la qualità grafica del lavoro compiuto. Che è un susseguirsi di originali soluzioni tecniche e formali e sorprendenti ingegni o invenzioni visive da macchine teatrali e ambientazioni sceniche.
Nel senso del meccanismo visivo, nell’opera incisa di Sciavolino possiamo distinguere due grandi stagioni: sostanzialmente calata nelle urgenze e nel vivo contaminante della realtà la prima, consegnata a una dimensione che vorrei dire evocativa e sognante del tempo e della vita la seconda. L’arco temporale delle due stagioni è più o meno equivalente, mentre si diversificano le poetiche. Congegno e ribalta dura e tagliente quale si mostrava sino agli anni Settanta e in modo più stemperato nel seguito degli Ottanta, luogo emblematico nel quale si celebrano – significa che si denunciano o si esorcizzano – per lo più i riti dell’alienazione e della crudeltà, con un cambio di scena favoloso l’immagine incisa si fa, con i maturi anni Ottanta, luogo di idilli e apparizioni, di leggerezza e di sognanti divagazioni dell’immaginario.
Era dunque tempo di proporre nella sua completezza, per come si è articolata e snodata nel tempo, che vuol dire nel suo divenire stilistico e tematico e poetico, l’opera incisa di Sciavolino. La quale consiste in 205 stampe, un numero considerevole se si tiene conto della complessità tecnica di alcune serie e del fatto che Sciavolino, dopo averle incise, ha quasi sempre provveduto di persona a preparare e stampare le lastre. Anche nel caso di alte tirature. Queste operazioni, del resto, difficilmente avrebbe potuto affidarle a stampatori pur provetti. I quali garantiscono l’uniformità della tiratura, ma ne abbassano la temperatura, ne smorzano il respiro spersonalizzandole. Specie nel caso delle lastre a colori, stampando in proprio Sciavolino ha potuto utilizzare un margine interpretativo dello specchio inciso per tirare esemplari non identici come cloni. Ha giocato su un certo grado di oscillazione visiva, quindi espressiva determinata dalla diversa qualità e modalità di stesura degli inchiostri e dalla pulizia delle lastre, oltre che dalla strategia pressoria del torchio.
Buona parte delle incisioni, difatti, sono concepite per il colore, quanto meno da esso visitate. Come nel caso delle partiture stampate in nero e marcate a zona, per lo più di rosso segnaletico. Oppure le monocrome a inchiostro variamente virato. O ancora le velate in lastra, a tessitura già carica d’inchiostro. Con gli anni Ottanta, poi, il colore è la costante raramente disattesa. Sciavolino progetta ed esegue l’incisione anche in funzione delle campiture e sfumature cromatiche. Sovente incide più lastre e le sovrastampa diversificando le tinte. Oppure le monta a tarsia e le imprime con un solo passaggio al torchio. Sono, queste, modalità di inchiostrazione e di stampa grazie alle quali anche minime variazioni, consentono di tirare esemplari ognuno contrassegnato da una pur lieve diversità.
Lo stesso uso costante ed esteso su ampie superfici, che specie con gli anni Ottanta, Sciavolino fa dell’acquatinta, la più tendenzialmente pittorica tra le tecniche incisorie, risponde all’esigenza di ottimizzare la resa cromatica. Assieme alla modulazione lineare e alla sintesi della forma figurale, l’acquatinta asseconda inoltre la componente illustrativa dell’immagine, da intendersi come rappresentazione non didascalica, bensì simbolica e analogica d’un luogo della realtà, una visione interiore, un’idea astratta consegnata all’evocazione poetica della figura.
Il numero delle matrici incise e utilizzate è dunque superiore a quello dei titoli qui schedati e ordinati grazie al defatigante lavoro di “scavo” e ricomposizione da Sciavolino compiuto sui materiali – fogli, lastre, cartelle, documenti d’archivio e bibliografici e sparse annotazioni tecniche – che per decenni erano andati stratificandosi nella sua casa/studio di Rivoli. Prezioso, per l’impresa speleologica e filologica, il contributo di Elsa Mezzano fotografa grafica ceramista, e moglie conoscitrice prima e collaboratrice di studio dell’artista. Sue sono le fotografie e le elaborazioni elettroniche di questo e di ogni altro volume e, in genere, la cura dei prodotti editoriali di Sciavolino. In primis gli impianti grafici, gli impaginati, i supporti fotografici delle cartelle/libro nelle quali Sciavolino ha espresso in modo esemplare la propria idea dell’arte: una convergenza di intuizione creativa e progettualità, capacità esecutiva e pensiero per fare del linguaggio una struttura formale e figurale significante e poetica.
A questo proposito e per inciso, un’osservazione. Salvo la prima fase del suo lavoro giocata sull’impulsività degli interventi e l’immediatezza espressiva d’una materia plastica e una tessitura grafica alquanto accidentate, quella di Sciavolino è stata arte di mediazione intellettuale, poetica, ideologica o concettuale che dir si voglia. Egli non è un istintivo, non lascia che la materia il segno il colore, i cui acchiti pur lo stimolano a possibili percorsi, gli prendano la mano. Egli bada piuttosto a governarli convogliandoli alla forma significante. Alla quale lo induce l’attitudine alla riflessione filosofica che vorrei dire problematicista, di lui siciliano nel cui retroterra culturale non manca la maschera di Pirandello.
Per questa ragione le sue cartelle non sono gli abituali contenitori pur accurati di stampe legate da un filo tematico o letterario. Singolari per impostazione grafica, veste editoriale ed esecuzione manuale di buona parte del corredo visivo e dei materiali cartacei, esse si configurano come veri e propri libri d’artista: luoghi del visibile parlare nei quali l’immagine incrocia la parola e la parola – la propria e l’altrui – ha una sua evidenza grafica oltre che il confacente spazio di espansione semantica.
Data l’abitudine di Sciavolino a sperimentare di volta in volta le soluzioni tecniche e formali più idonee al “progetto” dell’opera in corso, non è da escludere che una qualche stampa dimenticata o dispersa emerga dai depositi dello studio o dalla cassettiera d’un privato collezionista, al quale sia giunta per una qualche via. Penso non tanto a eventuali altri soggetti, quanto a prove di stato e a variazioni poi non accolte del tema grafico. Ipotesi assai probabile, questa, nel caso di due imprese incisorie ad alto gradiente progettuale che da sole coprono poco meno d’un quarto dell’intero catalogo di Sciavolino.
Mi riferisco alle venti tavole della cartella I canali di Marte (1968-1969), che si distinguono per la composizione e l’incisione diretta sulle lastre del testo di Piero Amerio visivamente integrato nell’immagine, e soprattutto alle trenta confluite nel libro marat maman, alle quali Sciavolino si affidava, per quanto ognuna sia formalmente autonoma e risolta nello specifico linguistico dell’incisione, addirittura per elaborare studi preparatori e tipologici di strutture spaziali e complessi plastici in corso d’opera. Si tratta del ciclo marat maman appunto, ovvero Discorso sui materiali del far scultura per interposto Marat (1978-1979), del quale le incisioni costituiscono una sorta di interfaccia grafica e iconografica, scavata e rilevata e come estratta/astratta nell’esile spazialità del piano, anziché sviluppata nella tridimensionalità della materia formata. Tra gli altri abbondanti materiali disegnati e dipinti, tecnici o iconografici messi in cantiere per studiare insieme e parziali delle sculture, ritengo assai probabile, quindi, che Sciavolino abbia inciso altre lastre o tirato prove di stampa poi accantonate o disperse e dimenticate.
Eventuali rinvenimenti di stampe sfuggite al presente repertorio e alla stessa memoria dell’artista, certo non modificherebbero il profilo complessivo stilistico e poetico, che può dirsi acquisito, dell’opera incisa di Sciavolino. Sarebbero tuttavia utili ad approfondirne aspetti particolari confermando il carattere anzitutto di laboratorio per la sperimentazione visiva che ha avuto il suo impegno di incisore e più estesamente di grafico, al pari di quello parallelo e integrato della scultura. Un laboratorio, ossia un luogo di ricerca e riflessione intorno ai materiali, ai linguaggi, ai processi formatori di un’arte che anche in versione incisoria non è mai neutra, nel senso del formalismo autoreferente.
Sciavolino non ha temuto la contaminazione della vita, la passione civile, la rappresentazione anche tagliente del suo esserci non accidioso né fatuo né defilato – non neutro, appunto – nel mondo e nella società. Nella sequenza della sua opera scultorea e incisoria, come in una sorta di diario di bordo, si può leggere in trasparenza la vicenda umana e civile, la biografia intellettuale d’un viaggiatore che in chiave di metafora visiva, ha raccontato la propria posizione di osservatore partecipe e critico del proprio tempo.
Da un versante all’altro del proprio lavoro. Sciavolino non ha mutato i registri espressivi né operato scarti stilistici. Nel rispetto delle forme linguistiche peculiari a ciascuna tecnica, ha formulato in termini diversi i medesimi quesiti, nell’incisione come nella scultura confermandosi artista incline a battere il terreno arduo, perché cosparso di relitti ideologici e di non spente passioni, della “storia”, che è interrogazione sul presente anche quando si affrontano luoghi emblematici del passato.
Frequentare la storia per Sciavolino ha significato affrontare temi e urgenze attuali, cavandone materia e occasioni d’esercizio della ragion critica. Il riferimento epocale non si è mai tradotto nell’accoglimento di una “verità” dogmatica, nell’aderenza a un dato oggettivo ritenuto certo e immutabile. Anzi, ha indotto un continuo processo di rilettura della sua posizione di uomo e di artista nel tempo e nella società (nella cultura) in cui gli è toccato di vivere. Al filtro dell’opera, la storia si fa metafora esistenziale dell’artista, segnata dalla sua personalità, dalla soggettività del vissuto e dell’interiorizzato anche nella loro forma più sfuggente, ma nel suo caso centrale, di elaborazioni dell’immaginario. L’ottica storica include pertanto anche la sfocatura della memoria, che negli ultimi decenni ha guadagnato terreno nel mondo di Sciavolino, divenuto specchio dei molteplici aspetti, in apparenza marginali, di una realtà anche quotidiana evocata, più che vista, come riemersa da un tempo indefinito al presente. Una realtà che Sciavolino rende in partiture rarefatte nelle incisioni a colori, con dolce modulazione plastica nelle sculture in marmo, attraverso soggetti di genere e modelli di un vago gusto retrospettivo, di una compitezza formale dal sapore antico, peraltro estranea al clima citazionista, nel senso museale o anacronista del termine.
Il lavoro incisorio segue passo passo lo sviluppo della scultura. Nella contiguità dei presupposti estetici e culturali e degli assunti ideologici, ne costituisce il complemento grafico più puntuale e per molti versi rivelatore. Molto più del disegno, pur frequentato con la medesima assiduità. Come disegnatore, Sciavolino ha realizzato di ciclo in ciclo una gran varietà di opere (alcune a respiro parietale) per molta parte formalmente compiute, dunque godibile nella loro autonomia estetica. Se raffrontati alle corrispondenti sculture, i disegni dichiarano tuttavia un preminente carattere di studi. Senza dubbio utili alla comprensione dei processi generativi ed evolutivi degli impianti e dei parziali scultorei, nel loro insieme non costituiscono un percorso complementare ma che in sé costituisce un altro modo di vedere la medesima realtà figurale.
Al contrario, nella tridimensionalità non solo virtuale della calcografia, che pesca nelle cavità del metallo per restituirli alla carta sedimenti e spessori, Sciavolino ha potuto visualizzare ipotesi di animazione e di sviluppo della forma scultorea in uno spazio che diremmo relazionale. Lo specchio della lastra, quindi il recinto del foglio che ne accoglie l’impronta, ha funzionato da scena per apparecchiature non sempre realizzabili, per ragioni di ordine pratico, nella fisica estensione della scultura. Luoghi di una spazialità contratta, però concreta, le incisioni si sono anche prestate a simulazioni o progetti di installazioni a scala ambientale, di sculture agibili, anzi drammatizzabili in senso teatrale.
Considerata in sé, l’opera incisoria ha una sua specificità di linguaggio e una peculiare identità grafica. Lo testimoniano la ricchezza e la singolarità delle soluzioni formali ottenute combinando e manipolando, in un contesto che diremmo eterodosso, tecniche tradizionali quali l’acquaforte e l’acquatinta. Tutto un versante dell’opera incisa di Sciavolino, segnatamente quella ordinata nelle cartelle Sicilia 1971? (1971) e I canali di Marte e registrabile in un’area della ricerca grafica tra Pop Art, Poesia Visiva e Nuova Figurazione, si distingue per la propensione a contaminare i modi calcografici convenzionali quali appunto l’acquaforte e l’acquatinta con l’uso di retini grafici e fotografici, trafori e placche sagomate e stampate a secco, viraggi e marcature cromatiche a zona e altri interventi di laboratorio. Alcuni dei quali suggeriti da intuizioni estemporanee, scoperte casuali, incidenti di percorso e insomma quegli imprevisti che sollecitando la ricerca di possibili soluzioni, funzionano da input creativi. Per esempio, le ossidazioni naturali dei metalli, di norma considerate fastidiose imperfezioni della lastra, vengono sfruttate abilmente come fossero morsure all’acquatinta, per ottenere speciali effetti di granitura e trasparenza del colore, valori massimamente apprezzabili nei Frammenti incisi intorno al 1990.
Dall’applicazione così fervida e mai ripetitiva di un talento incisorio pronto a dare seguito operativo a ogni curiosità e poco osservante delle convenzioni puristiche della calcografia tradizionale, sono dunque scaturite partiture grafiche piene di invenzioni linguistiche originali e persino stravaganti, nelle quali aleggia lo spirito sperimentale dell’Atelier 17 di Hayter, più che quello a suo modo alchemico, e segretamente poetico, dei distillatori del segno in tessiture che nel profondo della lastra scavano come nel corpo pulsante di un organismo vivente.
Le pagine finalmente licenziate di questo catalogo generale documentano dunque la storia della familiarità che per oltre mezzo secolo – tra iniziale empito espressivo, ratio progettuale e sperimentazione – Enzo Sciavolino ha avuto con lastre punte segni acidi inchiostri carte e torchi, facendo capo al 1963 quando all’insegna della xilografia, tempestava tre legni con sgorbiate vigorose portate al limite dell’informe. Ne cavava – è proprio il caso di usarlo, il verbo minerario – tre immagini di espressionismo esasperato e come speculari alle magmatiche figure con le quali, nel 1957, si era avviato alla scultura. Scultura che appena due anni dopo, esponeva alla galleria Caver di Torino nella sua prima personale. Sciavolino si rivelò subito scultore aspro e di dichiarato impegno sulla linea “dura”, tra espressionismo e informale, contiguo, per fare qualche nome, ad Agenore Fabbri, Franco Garelli, Alik Cavaliere, e al suo maestro al Liceo artistico di Torino, quel Sandro Cerchi che aveva fatto parte, con Paganin, del movimento antinovecentista di Corrente.
Le tre xilografie delle origini rimangono peraltro un episodio isolato. Sciavolino non riprenderà la sgorbia e il bulino nel seguito del suo lavoro. Appena l’anno dopo, difatti, saggiata la calcografia, la adottava in modo esclusivo praticandola senza interruzioni fino allo scorcio del 2014, quando si conteranno 202 incisioni, la prima delle quali (Corteo, 1964) alla puntasecca. Questa tecnica d’incisione diretta della punta sulla lastra, adatta a filamentare e intessere morbide forme, non era però quel che Sciavolino cercava, e che doveva trovare nel mordente dell’acido, dunque nell’acquaforte (Minaccia, 1964) alla quale da subito coniugava l’acquatinta (Fucilazione, 1964). La combinazione acquaforte/acquatinta l’avrebbe poi praticata pressoché stabilmente, e per un decennio almeno con morsure abbastanza profonde e corrosive, se non brutali.
Si capisce che al primo Sciavolino interessavano l’asprezza e pesantezza del segno, l’andamento spezzato e tortuoso della linea, la scabrosità butterata della materia, insomma quella sintassi grafica concitata e ansiosa e alla fine drammatica che avrebbe poi utilizzato fino alla metà circa degli anni Sessanta, trovando nella scultura una precisa corrispondenza morfologica ed espressiva.
Al pari dello scultore, sin dagli esordi l’incisore Sciavolino ha affrontato i grandi temi – quelli politici e civili post-resistenziali del dibattito democratico e quelli sociali rilanciati nel fervore della ricostruzione e della ripresa economica del Paese – da lui come da numerosi altri artisti e intellettuali italiani di sinistra, acutamente avvertiti lungo gli anni Cinquanta e nel seguito dei Sessanta, quando incroceranno il disagio e la protesta del movimento operaio e studentesco, che animerà il gran fermento della contestazione al “sistema” e l’illusione rivoluzionaria del Sessantotto.
Nelle numerose incisioni all’acquaforte/acquatinta e in quelle più rade alla sola acquaforte, Sciavolino somatizzava il clima e le diverse istanze dell’epoca. In ragione anche del sentire e del vissuto personali, introduceva e sovrapponeva in sincrono i temi resistenziali e quelli relativi al lavoro e alla questione sociale, la violenza repressiva del franchismo in Spagna e la “tortura yankee” (così un suo titolo del 1965) perpetrata presumibilmente nel Vietnam.
Questa sorta di sincretismo di eventi e situazioni di diversa dislocazione spaziale e temporale, che citati evocati allusi, convergono e in parte talora si ibridano nelle immagini, Sciavolino la praticherà con una certa frequenza fino al compimento della sua prima stagione. Ne sono un chiaro esempio le quattro acqueforti dell’ermetica cartella Sicilia 1971?, nella quale robusti telai a cornice contengono, tra le altre sagome di volti e figure incluse o ancorate ai margini, fotografie in grigio da album della memoria familiare montate assieme a uno stock di bombe e un tirassegno cerchiato sulla colomba/pace/volo/libertà, simbolo tra i più ricorrenti nella sua iconoteca.
L’artista che per una prospettiva di vita e di crescita dalla Sicilia nativa era sbarcato nel 1953 a Torino, che si avviava a diventare la prima città meridionale d’Italia, ipotizzava quale contenitore e approdo ideale del suo lavoro, quello “spazio per vivere” che sono la crescita e il riconoscimento sociale e civile della persona da conquistare in primis attraverso il lavoro, della comunità degli uomini da costruire sul principio della corresponsabilità partecipe e della giustizia
Dalla seconda metà degli anni Sessanta e in modo più stringente nel seguito dei Settanta che in Italia, come si sa, furono chiamati “di piombo”, la prospettiva problematica di Sciavolino andrà gradatamente aprendosi a una visione più generale e complessa del mondo occidentale e del suo modello di sviluppo: i meccanismi di potere che lo governano, le contraddizioni che lo attraversano, la vera e propria mutazione antropologica in corso e le ricadute psicologiche ed esistenziali del nuovo stile di vita, che produce alienazione e determina la diffusa inquietudine, il senso di crisi poi riassunta nell’espressione “disagio della civiltà”. Il tutto alla luce delle conquiste scientifiche e delle applicazioni tecnologiche schiuse a promettenti orizzonti, ma portatrici di nuovi condizionamenti e forme più sottili di controllo e di violenza.
Sul piano incisorio, per rappresentare l’ambiguità inquietante e l’imprendibile complessità del mutamento epocale in atto, Sciavolino compie a sua volta una trasformazione: traduce gli impalcati, le strutture lineari delle sculture-ambiente con le quali aveva raccontato il martirologio del lavoro, le fucilazioni, gli eccidi, in un algido campionario di stringenti griglie, cornici, riquadri, teche, valigie aperte, scaffalature, insomma ricetti che includono, come in claustrofobica contenzione, cose busti volti per lo più sagomati e marionettistici, i cui gesti incomunicanti sono come fissati in una sorta di sigillata enigmaticità.
Dal segno corsivo e franto e dall’aspra materia tormentata iniziali, il linguaggio incisorio diviene schematico e oggettivo, direi analitico nel tratteggio dei segni, nelle graniture dei fondi, nello spessore e andamento delle linee che in funzione di telai spazialmente portanti, dunque compositivi (ma anche scompositivi del quadro in comparti), o quali contorni o profili di forme e figure, restituiscono immagini stilizzate da graphic design. Le applicazioni fotomeccaniche, i retini, la varia segnaletica e, non ultimo, il lettering e ancor più la messa in pagina di testi graficamente integrati, sono poi utilizzate al massimo delle risoluzioni tecniche e visive nelle venti sorprendenti – davvero un unicum nella sperimentazione grafica italiana di quegli anni – incisioni de I canali di Marte (1968-1969), lucida riflessione sul cortocircuito dei voli e cadute terrestri nella proiezione del volo nel vuoto dello spazio cosmico.
La più ampia prospettiva politica e culturale e le frizioni problematiche degli anni Settanta inducono anche in Sciavolino il sentimento della crisi. Da artista e intellettuale dotato di memoria e coscienza storica, assieme al proprio ruolo di artista egli mette in discussione le tradizionali modalità della “sinistra” di impostare l’azione e la comunicazione politica e la stessa capacità di capire il senso del mutamento in atto. Sciavolino si avvia a chiudere una stagione del proprio lavoro, insomma, quando ponendo prima di tutto a se stesso un interrogativo sulla nozione e la possibile incidenza d’un rinnovato proposito di cambiamento, affronterà dal 1973 al 1976 il tema della post-unitaria e ancor oggi irrisolta Questione Meridionale, alla quale intitolerà il suo “teatro” scultoreo sicuramente più impegnativo. Parlo de La Questione (1973-1976), un grande tavolo apparecchiato con oggetti della quotidianità e simboli delle ideologie, occupato dai mezzibusti di intellettuali e uomini di potere, di ideologi e artisti qui convenuti come a una laica ultima cena o come al banco d’un tribunale. Per fare cosa? Per dare udienza o giudicare le due figure astanti e ignude, la donna e l’uomo che stanno per la comunità, o per rendere loro conto ed essere da loro giudicati. La figura astante ed egualmente nuda di Pasolini nella quale si identifica lo stesso Sciavolino, l’artista e l’intellettuale eretico della sinistra che con il dito alzato chiede udienza, nonché una risposta, sigilla la necessità dell’interrogazione critica.
Quale interfaccia incisoria de La Questione Sciavolino ha eseguito, a posteriori, solo l’acquaforte/acquatinta Gramsci (1978), con la quale, peraltro, siamo già nel clima espressivo del ciclo marat maman, davvero conclusivo del processo critico di cui si diceva e del contenitore ideale sotto la cui insegna, con il titolo But cruel are the times 1968-1980, si svolge il suo percorso dopo Uno spazio per vivere 1963-1968.
L’insegna del capitolo che si apre recita Il tempo e la memoria o della perdita dell’infanzia che a far data dal 1980 accoglierà il lavoro incisorio sino al 2014. Potremmo soggiungere che con le serie terminali Incontenibile leggerezza e Il circo degli angeli, il navigatore Sciavolino approdi, con un graduale percorso di recupero memoriale e affettivo del senso profondo e della bellezza della vita, all’isola dell’infanzia “ritrovata”. Ossia alla purezza dello sguardo dischiuso sul mondo per filtrarne le scorie e restituirlo in poetica visione.
Alla lettura documentata e analitica dell’intera opera incisoria di Sciavolino emergono chiaramente lo spessore e la complessità di un’esperienza da collocarsi tra le maggiori realizzate in Italia negli ultimi decenni. Non solo nel novero degli scultori, i quali sono naturaliter capaci calcografi, ma nel ristretto ambito degli incisori esclusivi, e dei pittori che alle lastre di metallo, alle punte, ai bulini, agli acidi, ai torchi hanno riservato un’attenzione particolare. Sciavolino ha lavorato sulla lastra con una certa sistematicità e, ripeto, con lo spirito dello sperimentatore di tecniche e linguaggi, di soluzioni formali e stilistiche sempre finalizzati a un progetto concettualmente motivato. Dunque a un contenuto poetico, un ragionamento traducibile nei termini del “visibile parlare” che implica una compenetrazione osmotica tra l’immagine e la parola sottesa, tra il contenuto poetico e la sua trasposizione visiva o illustrazione che dir si voglia, ma anche un tempo e uno sviluppo, una durata del racconto.
Non è un caso che Sciavolino abbia non occasionalmente frequentato e coinvolto nei suoi progetti poeti e letterati. E abbiamo parlato della sua predilezione per il lavoro incisorio progettato e realizzato sotto specie di cartelle tematiche assimilabili a libri d’artista nei quali la composita partitura visiva determina appunto lo sviluppo e la durata d’un racconto. Con una cartella/libro, Poema popolare (1980) Sciavolino apre la sua seconda stagione incisoria all’insegna de Il tempo e la memoria, e in un libro/cartella, Il tempo. Frammenti di un non diario quasi crudele, ha finalmente raccolto nel 2012 ben 35 stampe scalate dal 1964 al 2010, ognuna delle quali di volta in volta specificamente destinata a testimoniare una stazione incisoria del proprio viaggio, nel sofficiano suo “diario di bordo” dove ha altresì raccolto lo sfaccettato prisma della scultura e una costellazione di pagine poetiche e letterarie degli autori che lo hanno accompagnato nel suo percorso lungo decenni.
Percorso segnato e pausato dalle stazioni delle cartelle tematiche che abbiamo detto ordinate come libri d’artista e luoghi di riflessione. A cominciare dalla prima, A Madrid e in altre parti, che è del 1964 non ha testo introduttivo e contiene cinque incisioni di evidente carattere goyesco, per altrettante poesie di Alberto Tomiolo. Anche il tema lo dice, trattandosi della rinnovata perversa ottusità del potere, cui non mancano le occasioni, a varie latitudini politiche, per rinnovare i propri rituali violenti. Questa opera costituisce il primo raggiungimento unitario in ambito calcografico. La visione tecnica è ancora legata alla fenomenologia del segno, il cui linearismo descrittivo, condotto all’acquaforte sulla preparazione dei fondi con l’acquatinta, è al servizio di scene realistiche pur nella scioltezza, direi persino nella sinteticità della sua resa figurale.
L’ultima cartella, del 1981, è un vero e proprio libro d’artista. Si tratta di Poema popolare di Maurizio Pallante, raccolta inedita di 46 sonetti che rinnovano la tradizione satirica romanesca. Sciavolino vi ha aggiunto 10 incisioni, ispirandosi a altrettante poesie, ma senza illustrarne le situazioni narrative. Il suo itinerario risulta anzi leggibile come una storia parallela. Direi meglio un’autobiografia critica raccontata per quadri: la micro-mitografia personale (Gramsci, l’emigrazione atavica) si sovrappone alla vicenda collettiva e ne attualizza il respiro. Sul piano del linguaggio, si segnala l’uso ricorrente dei retini fotografici. I quali debitamente manipolati con interpolazioni e integrazioni grafiche, immettono sulla scena episodi significativi della cronaca e della memoria, che Sciavolino contamina con icone celebri del repertorio artistico (Creazione dell’uomo e Cacciata dall’Eden di Michelangelo, Le déjeuner sur l’herbe di Manet) per costruire immagini ambigue nelle quali le allusioni epocali rendono vieppiù intrigante il gioco metalinguistico.
Tra il 1964 e il 1981, oltre a una quantità di incisioni sparse, Sciavolino ha realizzato le più volte ricordate cartelle I Canali di Marte (1969), Sicilia 1971? (1971) e Nature morte (1971). Sono opere impegnative, per impostazione tecnica e intonazione espressiva. Specie la prima, che ha struttura poematica e si compone di ben 20 stampe ispirate alle ermetiche illuminazioni liriche di Piero Amerio, i cui testi risultano incisi come le figure, inseriti nel corpo della composizione, dunque utilizzati sia per i contenuti letterari sia come motivi grafici che ricordano i calligrammi di Apollinaire e partecipano di analoghe esperienze di poesia visiva.
Sul piano tecnico e linguistico Sciavolino ha toccato qui il massimo livello di complessità. Non c’è espediente calcografico che non sia stato utilizzato, per raggiungere l’obiettivo di uno spazio totale in cui molti codici comunicativi vengono attivati per lanciare l’allarme sulla separazione che andava consumandosi tra l’uomo e la storia. I Canali di Marte è una composita, inquietante riflessione esistenziale su temi e problemi cruciali di quell’età governata, sul piano internazionale, dalla logica ricattatoria dei blocchi contrapposti, da una competizione ideologica giocata sul terreno geopolitico non meno che sulle piste spaziali, e di fatto segnata dalla corsa agli armamenti e dai conflitti locali in cui si bruciavano gli attriti tra le grandi potenze, con lo spettro sempre incombente di uno scontro frontale dalle conseguenze apocalittiche.
Le altre due cartelle potrebbero essere raccolte in una, tanto stringenti sono la continuità stilistica e la tipologia grafica delle 9 acqueforti che le compongono. Non a caso sono uscite entrambe nel novembre del ’71: quattro dedicate a una Sicilia rivissuta sul filo della memoria familiare, cui si sovrappongono i simboli inquietanti di un presente problematico; le rimanenti cinque, raccolte sotto la dizione Nature morte, sono un apologo spietato sul tema dell’identità dell’artista. Il quale nel teatro dell’opera mette in gioco la propria maschera, sottoponendosi al tirassegno crudele dello sguardo che lo uccide, nel momento in cui lo svela.
Infine la cartella/libro marat maman nella quale l’ottica di Sciavolino si fa decisamente individuale. Intorno alla figura emblematica di Marat ruota certo l’universo della Storia, incontrata a un punto di massima deflagrante manifestazione, come è una rivoluzione. Ma sullo sfondo della rivoluzione, il movente politico arretra per un più sottile ragionamento intorno all’ambivalenza identità-alterità (l’opera di Sciavolino della prima stagione è piena di dualismi e opposizioni), in cui consiste lo specifico concettuale dell’arte. Marat e Carlotta, l’artista e la sua musa anche ideologicamente connotata, sono le figure antagoniste necessarie l’una all’altra, nel gioco delle parti che l’artista conduce con il suo viaggio attraverso la stanza da bagno, la vasca-sarcofago, l’intimità di un uomo che muore per voler conoscere, e in quanto conosce, in Carlotta, la propria anima. Ecco! Sulla ribalta della Storia, ovvero nel luogo della scultura e dell’incisione che per interposto Marat ne è lo specchio, Sciavolino fa irrompere le latenze interiori, le tensioni, gli ideali, gli umori, le passioni. Insomma il vissuto. La vasca da bagno di Marat, luogo del sacrificio, assume valore simbolico come canopo dell’anima, bacino di purificazione.
Nelle incisioni dopo il 1981, alle quali lavora sempre per cicli tematici, Sciavolino è andato sempre più sviluppando la componente fabulatoria dell’immagine, ora non articolata struttura ma propriamente visione di creature cose situazioni nell’unità dello spazio. Ambiente o fondale segnato poniamo da un albero, lo spazio è teatro di natura. Che si dispiega propriamente come decantato e sovente stilizzato paesaggio terrestre o marino, dove stanno o agiscono le creature. Che si manifesta come fenomeno, poniamo la pioggia che irradia sul mare, oppure l’onda falcata che porta una nave il cui timone, idealmente, ho pensato retto da Sciavolino, il “Sindbad” della poesia di Younis Tawfik che ho posto in apertura del viaggio del nostro sguardo attraverso l’opera incisoria alla quale non sono estranee, ormai, le acque insulari del mito mediterraneo.
Anche in funzione illustrativa Sciavolino attinge a piene mani alle risorse del colore e mette a fuoco il soggetto inquadrandolo a pieno schermo, sia nelle grandi aperture sul paesaggio ove agiscono personaggi che hanno ritrovato una loro infanzia creaturale, uno stato originario, sia nelle inquadrature ravvicinate su cose, figure, situazioni compiutamente restituite ma viste anche sotto specie di frammenti residuali o di rimando a un più ampio contesto. Sciavolino chiama Frammenti, appunto, i candidi marmi, talora parzialmente dipinti, che va eseguendo e le corrispondenti incisioni che di quelle già purificate forme lapidee assumono l’essenza figurale, la smaterializzata impronta. Sono momenti della quotidianità esemplati sui frammenti di scavo del mondo classico, ossia sulla testimonianza della continuità della memoria storica nel tempo.
Dai frammenti scaturisce il ciclo Incontenibile leggerezza, una poetica scalata della tenerezza e della grazia a un cielo ancora possibile, da assegnare ai fanciulli e ai poeti, che ne riconoscono la voce nel proprio cuore. Dichiarava Sciavolino nel 1993: «Propongo frammenti di storie, di natura, di realtà che sono porzioni di sogni, di memoria nella battaglia per la verità, che è poi la poesia.» Nelle incisioni sino al presente egli non ha cessato di tentare la via della favola e dell’apologo mediante immagini di incantata semplicità. Ha popolato la scena di putti alati e di bimbi che scalano corde ancorate al cielo, cavalcano balocchi, fanno l’altalena sugli alberi, si esibiscono agli anelli, si bilanciano su una corda tirata tra due aerei trampolini sulla vertigine del vuoto, tentano mille altre acrobazie e sfilate e apparizioni e viaggi nel circo della terra e i suoi trapezi o sulle onde del mare. Con Il tempo e la memoria o della perdita dell’infanzia Sciavolino rovescia la visione del mondo dell’infanzia: dalle favole vissute come proiezione possibile della realtà, alla realtà del tempo presente di disincanto e di disillusione, non vivibile altrimenti che sotto forma di simulacro, finzione, metafora. Per un artista di tempra anche forte dura tagliente (But cruel are the times) come Sciavolino è stato, siffatta professione metalinguistica può sembrare un ripiegamento intimista, quasi una fuga dalla realtà. A me sembra che nelle sue teche reali o ideali egli “imprigioni” i frammenti di un sogno da salvare, per rigenerarlo e rilanciarlo nel circuito di un mondo che ha bisogno di questi messaggi.
In uno dei suoi marmorei “frammenti” Sciavolino ha raffigurato una mano che stringe una colomba, non si sa se per tenerla prigioniera o se per liberarla, e sono tante le colombe dei suoi cieli incisori. Tocca a lui sciogliere la nostra incertezza di passeggeri dell’astronave terracquea che ci conduce come un’arca nel diluvio. E che possa tornare, la colomba, con un ramoscello di ulivo.