Aldo Gerbino
Nel cerchio della mia vita per Enzo Sciavolino
Ecco frangersi il volto, l’ala densa d’albume
e il taglio verticale, il fendente del corpo, la ferita,
l’anima cieca cui tutto sottende.
E poi l’onda che spinge il cerchio, il gorgo
il flutto, l’isola dispersa, l’anima
del ricordo, la fonte esausta dei giorni.
Ora ultime parole,
sospiri, lacrimatoi colmi di vapore.
Palermo, maggio 2001
Aldo Gerbino
Ore e nubi dal taglio
Una fessura, un taglio, una jàlina pellicola d’aria attraversa di colpo il tessuto marmoreo, la sua verticale tensione, quel suo essere corpo, volto, rammemorazione.
Cosa d’altronde urge ricordare, se non il senso oblungo della temporalità, lo sciogliersi disincantato delle ore tinnanti e lugubri, quasi accumulate da un dio ctonio sul dorso della terra, emerso da sotto un laminare impreciso camminamento? Esso si mostra coperto da un fluttuante mantello appena tramato di ansia celeste, di suoni, di fratture, attriti.
Poi il disperso sentore dell’esistenza appare in tutto il suo urgente rigore: un fiore litico, un barbaglio venato di durezza compatta e annichilita.
Così Enzo Sciavolino, scultore di empatia mediterranea, affronta (con la sua stele di Collegno) il tema dell’irrevocabile fluidità dell’esistenza, il perno su cui ruotare la propria visione del mondo. Di certo Enzo possiede, fin negli umori profondi, un lucido percorso creativo; lo testimonia quella dimora dell’anima vissuta tra le trame vibratili della incisione, della pittura, e, soprattutto, tra i piani esemplari e trasognati della scultura, dove la planimetria dei giorni, le corde annodate dei decenni, affrontano il gusto amaro d’una ricerca spesso dura, scorante, dilaniata dal miele giallastro d’una patina nostalgica.
Ma in più, in questo artista sincero, apprezzato dalla intelligenza critica di un De Micheli, sostenuto da poeti e scrittori, capace di conquistarsi amicizie e amori duraturi, condiviso senza infingimenti dal richiamo filiale e dalla attenta, quanto partecipe gioia interiore, riversata a piene mani dalla mitezza contemplativa della compagna Elsa, il sogno plastico della scultura, così come avviene Nel cerchio della mia vita (metafora ampia di ogni germinante esistenza) si fa drappo che tutto avvolge. Dopo si trasforma in onda coinvolgente e travolgente, in ritmo di amore e sacrificio, in squarcio vivido di materia biologica commista alla forza panica emersa da tutto quello che ci circonda e sostiene. Oggi la ragione individuale riflette comunque quella sociale che a questo artista pertiene: il gusto per la “discussione”, il borbottio del tempo lacerato dal precipitare etico della politica, il dolore percepito dall’assordante continuo gocciolare del sangue del prossimo. Su tutto questo le onde del mare si aprono, in biblica sembianza, a restituirci la vita; a dare, pur tuttavia, un segno di speranza.
Quella guttusiana “spes contra spem” che qui, grazie al suo valore categoriale e poetico, affiora per ricordarci ciò che la generazione di Enzo Sciavolino, quella, per intenderci, posta ai confini della “conversazione” vittoriniana, è figlia tradita della civiltà agropastorale, disciolta in quel rapido incoercibile frantumarsi delle saggezze contadine tanto care a Montale e profondamente elaborate da Pasolini.
Sin dagli anni Cinquanta Sciavolino (giovane di Valledolmo, rimosso dall’aspro terriccio metafisico dell’entroterra siciliano e inurbato nel rigore prospettico del fascino fluviale d’una Torino vissuta in tutta la sua anodina rigidità e contraddizione) affronta, lungo i margini sonori della storia, le sue rotte d’acqua, i suoi profili di donna legati dal fluire classico dei capelli ventosi: donne della Sicilia, donne del nord, in una sorta di meticciato visivo offerto, quale raccordo simbolico, alla sua ricerca, mitigatore attento del suo espressionismo.
Ecco, dunque, che il “cerchio” si chiude. Vita, emozioni, nuvole, pietra e figurine bronzee vanno mulinando, caoticamente, lungo il Piazzale della Memoria tra le mani mobili di Enzo, silenti, appassionate.
Palermo 2003