Alberto Tomiolo
Appena mezzo secolo fa!
Fu nello strepitoso caravanserraglio della Galleria Ferrari di Verona che ci incontrammo fatalmente con Enzo Sciavolino, agli albori dei non mai abbastanza mitizzati, o veramente “mitici” anni ’60.
Da quel luogo funambolico, infatti, transitava non poco popolo vagante dei consolidati maestri (da Fontana a Vedova) e dei giovanotti di belle speranze (da Tancredi a Piero Manzoni) dell’arte e della cultura trasversale del secondo Novecento italico (ma anche foresto…), richiamati dal prestigio messo su da un vulcanico gallerista ex corniciaio che sfornava mostre di livello impensabile nella provincia nostrana, che manteneva una squadra di artisti locali, equamente divisi tra geniali e genialoidi e comunque curiosi anche se, forse, un po’ troppo assidui delle proverbiali osterie scaligere, e che assecondava una corona di giovani poeti, tra cui il sottoscritto, e intellettuali delle più disparate discipline, tutti inebriati dalla vicinanza con la cultura “alta” finalmente ad una portata non più periferica.
Enzo Sciavolino stava seguendo la preparazione di quella che rappresenterà, e mi perdoni se io colloco quella sua apparizione in modo che potrebbe apparire sovrastimato rispetto ad altre significative esposizioni, la sua prima corposa mostra extra moenia torinesi che si inaugurò nell’aprile del 1965 e che conterrà alcuni dei bronzi e dei bassorilievi più vigorosi ed emblematici del suo percorso formale, “dettati” da quelle coraggiose irruzioni tematiche nella storia viva, drammatica e impregnata, per chi avesse saputo vedere, di tante fra le fertilissime potenziali sollecitazioni che quegli anni fornivano.
Se non ricordo male, fu una sera d’estate del ’64 (appena mezzo secolo fa!), a cena con il gallerista Enzo Ferrari, mentre Tancredi e Umberto Savoia (l’eccellente, ma ahimé troppo appartato maestro roveretano del secondo Novecento) si sfidavano a chi disegnava più svelto sulle salviette di carta da macelleria in una trattoria del lago di Garda, che ad Enzo e a me venne in mente di fare qualcosa assieme: lui coniava incisioni vigorose e vibranti che avevo visto e che mi avevano sedotto nonostante io fossi allora devoto alla religione informale e sprezzante di ogni allusione “realistica”, mentre a mia volta avevo scritto e infine deciso di pubblicare una trilogia in versi, tra i più vissuti della mia attività, sull’allora fervente questione della Spagna franchista.
Ora, a tanti anni di distanza, è semplicemente obbiettiva la constatazione che Sciavolino ha accatastato una tale, cospicua produzione di incisioni, che risulterebbe ozioso interrogarsi, se non per computo statistico, quanto esse costituiscano delle propedeutiche “parasculture” oppure delle “simulazioni” di opere trasbordate poi nelle creazioni di volumi e di mirabili architetture tridimensionali.
Fatto sta che nella cartella che ne uscì, curata da Remo Pastori, di cinque acqueforti, che io immaginavo colate da quell’acido nitrico cui ricorrevano i cavalieri antichi per fregiare e decorare le impressionanti corazze delle loro battaglie, vi è una sola concessione “specifica” (Carabineros) propriamente illustrativa del tema madrileno dei testi della mia trilogia, mentre le altre preludono in modo esplicito fin nel titolo – prima di tutte, la memorabile Impiccagione in piazza – ai soggetti della grande mostra del successivo aprile del ’65 e confermano, in ogni caso, la continuità del medesimo graffiante flusso creativo e della stessa intensità morale di Sciavolino, scultore o incisore che fosse.
E di quella mostra io custodisco, dolci e fascinose nella memoria, due specialissime, contundenti apparizioni: quella della tragica trama di Morte bianca, una sorta di leitmotiv sulla miserevole deriva mortale della manodopera immigrata negli anni dell’economia miracolata e, soprattutto, quella della Deposizione a mano armata, il più audace stravolgimento del pietismo culturale del topico Compianto medievale che qui conclude, lo dico senza la minima preoccupazione di spararla grossa, il consacrato percorso di un versante canonico della miglior scultura italiana.
Queste folgorazioni io devo all’incontro (appena mezzo secolo fa!) con l’artista Sciavolino, con il quale ci siamo riservati, anche, una adeguata, preziosa amicizia.
Verona, 5 dicembre 2013