Guido Seborga
Visita allo studio di Enzo Sciavolino
Annoiato di ascoltare parole ridotte ad un mero tecnicismo patetico per giochi fatui e formali; di vedere quadri e sculture ridotti al più stucchevole ed elementare “verismo” tecnologico – queste infami complicazioni con una società sempre più equivoca e che muore in automazione dove la caratteristica cosmopolita più precaria è la stessa tecnica che si mangia la scienza. In questa epoca di girabulloni mentre circolavo per strade troppo larghe, deserte e pletoriche, in una piazza solenne come un verso di un accademico e priva di una vera e profonda civiltà – una sera – trovo Enzo Sciavolino, di cui anni fa avevo visto e guardato con attenzione e interesse in una mostra alcune sculture – e finiamo nel suo studio cantina serena in una villetta liberty, che dimostra che Torino ha una sua borghesia secolare, figli diretti dell’illuminato Cavour, amministratori oculati e politici ad alto livello se ci furono Einaudi e Gobetti, così inascoltati dalla turba dei politicanti. Appunto nel mondo una carenza di storia e un eccesso di strutturalismo dove anche i professoroni alla Foucault e i vari professorini autarchici possono finire nella loro triste vita di manichini da porre nei sepolcri imbiancati.
Appunto nauseato sono da manichini e da robots. Il robot che guida la fabbrica è già una realtà nei paesi chiamati supersviluppati e… futuristicamente immaginiamoci che si lavori due ore al giorno e si riposi sempre, ci offrono a parole un nuovo paradiso terrestre?
Ma come mai questa avanguardia si dimentica sempre del sesso? Inibiti e deboli come sono hanno bisogno di una macchina per rafforzare e prolungare l’uomo...
Tutto questo mi venne sintetizzando in mente attraversando i vani bianchi della cantina di Enzo Sciavolino.
E mi mettevo immediatamente in sollievo di fronte alle forme plastiche vive e nuove che i miei occhi vedevano; e il mio essere a poco a poco ne risentì a fondo e profondamente.
Giovane, sono recenti i suoi punti più esteriori, ma si badi anche prima una ricerca sempre fondata sulla plastica scultorea e mai viziata o perduta; sempre un pollice avuto per grazia di mano che lavora nella tensione e intensità della materia mai abbandonata sempre ripresa lacerata e dominata.
E poi quasi come una maturazione che giunge e si conquista ogni ora – sempre meglio spezzando e abolendo il tempo – scattano in avanti le sue figure umane dalle forme molteplici che si possono profondamente unire ad altre figure umane in una libera prospettiva che muta; a volte monumento, a volte costruzione architettonica. Tutta una serie di qualità, drammatiche e intime che si condensano e si aprono nello spazio per gli spazi interiori e si estrinsecano. E poi certe sculture più piccole (mai banali oggetti preziosi da tenere sul tavolino da notte...) che sono come vegetazioni marine a volte, o forme di folgorazione di poesia materica che trova la sua sintesi nuova irreale e reale, una fantasia che si concretizza in una realtà integrale.
Convince questa ripresa ideologica e utopistica ferma e sicura contro un mondo artefatto di burattini automatici: la figura scarnita e lacerata dell’attuale umanità in dialettica individuale e collettiva, mai complice di miti o retoriche.
Torino, maggio 1967