Nicola Micieli
Teatro della scultura
Enzo Sciavolino conta ormai cinquanta e più anni di esercizio scultoreo. Oltre mezzo secolo trascorso per molta parte come su un bilico, occupando una postazione invero assai poco comoda e non molto frequentata, perché sovresposta, contaminata, irritante, per questo oggetto di quasi scontate bordate critiche ad altezza d’uomo di diversa matrice, comunque sempre viziate da una pregiudiziale ideologica, più che di merito artistico. Direi normale e prevedibile che ciò accada. Anzi, in definitiva lo trovo auspicabile, a conferma d’una posizione non neutra né pacificante, quando l’artista non teme il “contagio” della realtà, si immerge nelle pieghe dell’animo e affronta le emergenze, gli scompensi, la pulsazione ansiosa della vicenda collettiva. È indice di carattere fermo e di un fondato convincimento morale, il fatto che Sciavolino abbia mantenuto il proprio impegno con tenacia e senza cesure, rilassamenti o vacanze. E che lo abbia fatto, aggiungerei, nella fedeltà a un mezzo espressivo che pretende la presa diretta, il corpo a corpo, oltre al governo mentale dei processi ideativi ed esecutivi. Che affatica ed appaga nella concretezza del fare. Intendo la scultura di rigorosa definizione plastica e costruttiva; quella che nello spazio impone la propria presenza, con la quale occorre misurarsi. La scultura e il disegno – o anche l’incisione – ad essa strettamente correlato, un complemento operativo necessario che Sciavolino ha puntualmente utilizzato, ciclo dopo ciclo; e i cui esiti, peraltro, sono da considerarsi momenti creativi in sé compiuti e autonomi, per proprietà di linguaggio originale e soluzioni formali e stilistiche. Del lungo percorso di Sciavolino oggi dà conto la mostra di ampio periplo qui documentata, promossa dalla Regione Piemonte quasi a suggello dell’intimo rapporto tra lo scultore siciliano e Torino, la città dove egli emigrò giovanissimo, dalla nativa Valledolmo, nel lontano 1953. Vi approdò e ne fece la sua seconda patria. Torino difatti lo ha rivelato alla pienezza della vita e all’arte. Nella città del lavoro e della cultura, Sciavolino si è riconosciuto uomo e artista metropolitano, avendo della sua terra conservato l’impronta indelebile delle radici culturali mediterranee, e un senso di umanità ancora informato all’etica del rispetto della persona nel circolo comunitario. Per questo Sciavolino si è dimostrato fortemente sensibile alle contraddizioni della modernità e disposto a farne una critica correttiva. Per circa un trentennio, almeno sino all’avvento de’ La Questione (1973-76) e al ciclo Discorso sui materiali del far scultura per interposto Marat (1977-1981), due capisaldi del suo lavoro che riassumono in modo emblematico la crisi di identità e di funzione della sinistra italiana al guado dei plumbei anni Settanta («Marat – diceva Sciavolino – è la cronaca di un suicidio, La Questione è la conclusione di ciò che ha preceduto il suicidio. È la resa dei conti del mio “vissuto” nel sociale»), Sciavolino si è dunque mosso su un terreno per sua natura instabile e insidioso. Lo chiamerei un territorio di frontiera, se non temessi equivoci avanguardisti, nel senso di lasciar intendere una ricerca sperimentale finalizzata alla novità o all’incremento del linguaggio, piuttosto che alla “messa in scena” del presupposto tematico e poetico, cui fornire adeguati strumenti espressivi. Sino allo snodo del Marat difatti, Sciavolino ha lavorato per rappresentare in chiave interlocutoria le incrinature strutturali, i segnali di crisi culturale e sociale del suo tempo. Ha anzi usato il tono perentorio e la tagliente sintesi formale della denuncia, consegnandola a marchingegni claustrofobici e inquisitori, di fatto assimilando la scultura a un vero e proprio teatro della crudeltà che copre, in pratica, gli interi anni Settanta.
Crudele era lo spirito del tempo. Un tempo che Sciavolino ha vissuto da uomo di sinistra a suo modo ereticale, in senso pasoliniano. Al quale cioè non sfuggiva la discrepanza tra l’elaborazione teorica e la prassi politica, in una sinistra italiana scarsamente dialettica al suo interno e culturalmente poco flessibile rispetto a uno scenario internazionale in movimento. Di quello scarto Sciavolino si faceva carico: lo assumeva a materia di dibattito, lo somatizzava nella metafora poetica esponendosi in prima persona, mettendosi nudo nel proprio ruolo di artista attivo in quel determinato contesto civile e in quella precisa contingenza storica. Nessuna deroga o scorciatoia; nessuna fuga visionaria né paravento ideologico, bensì una spietata lucidità intellettuale. Ne è scaturita un’acuta, anche dolorosa riflessione sulla scultura e il suo statuto, sicché da una poetica di dichiarata aderenza esistenziale e sociale, dunque di facile deriva contenutistica, nonché enunciati retorici, sono andate componendosi le pagine d’una biografia inquieta nella quale si riconosce il clima di un’epoca e il profilo parabolico, tra illusione e disincanto, di un’intera generazione.
Negli anni giovanili e della prima maturità, quando si trattava di trovare la propria collocazione sullo scacchiere artistico, Sciavolino non ha operato per mettersi in “situazione” con quanto andava maturando nel contesto in cui si è trovato ad agire, nel senso dei linguaggi in formazione e degli ambiti di interesse e di intervento della ricerca. Penso, in particolare, alle tendenze d’area tra concettuale e “arte povera”, che dovevano affermarsi su un piano internazionale e al cui interno non gli sarebbe mancato un adeguato spazio d’azione, per la sua personalità non marginale nel comune laboratorio torinese. Avrebbe potuto comparire tra i più dotati di idee e capacità operative di quel movimento, se non fosse stato legato a doppio nodo allo statuto plastico e strutturale della scultura e non avesse avvertito come primaria, sin dai primi anni Cinquanta del suo discepolato presso Sandro Cherchi al Liceo Artistico di Torino, la necessità di filtrare da scultore partecipe della contemporaneità, i temi e le urgenze della condizione umana. Ciò in un contesto socio-economico e culturale in profonda mutazione, nella Torino che stava per divenire la prima “città meridionale” d’Italia e uno dei motori del boom economico. In quegli anni formativi, durante un lungo soggiorno a Parigi, e una immersione nel clima esistenzialista, Sciavolino riflette sul senso del vuoto e della precarietà dell’essere. Conosce e approfondisce l’opera di Giacometti, Richier, Fautrier, Dubuffet, dai quali desume un’immagine dell’uomo dalla corporeità devastata e primordiale, nella quale legge il segno contemporaneo d’una violenza che è deprivazione sensoriale e cognitiva, oltre che repressione fisica. Conseguente, a Torino, la contiguità di spirito con la temperie informale, alimentata dalle presenze di Moreni, Rambaudi, Tapié, e dalle lanceolate, residuali figure di Franco Garelli.
Le lamiere saldate di Garelli hanno senza dubbio giocato un ruolo nella formazione di Sciavolino, insieme alle “sculture-paesaggio” e ai “teatri delle forme” di Cherchi e ai più lontani barbagli di luce, alle guizzanti forme plastiche “toccate” delle composizioni di soggetto sacro di Lucio Fontana, realizzate per il concorso della Porta del Duomo di Milano (1950). Su queste premesse, allo scorcio degli anni Cinquanta Sciavolino esordisce con figure di scabra corporeità, affaticate dal peso della materia. L’accento è tra informale ed espressionista. Sono figure di “resistenti” memori dei modelli di Cherchi e Paganin, due artisti non a caso appartenuti al movimento di Corrente. E un sentore di scultura ancora segnata dagli “orrori” della guerra si avverte in quella prima stagione. Lo si coglie nell’informe fasciame di muscoli in cui consiste la corporeità di Nudo, di Uomo nello spazio e altre opere intorno al ’57, che paiono scampate a un cataclisma. Trovo che non sia improprio leggervi lo spettro di Hiroshima, un tema a cui in quel medesimo periodo, e con una morfologia corporale di analoga devastazione, lavorava a Milano il toscano Agenore Fabbri. Del resto, ancora alla metà degli Anni Sessanta, Sciavolino ritornerà su temi di rimando bellico e resistenziale – con aggiornamenti sui conflitti in corso: Viet-Nam, 1964 – quali le fucilazioni e le impiccagioni, del tutto simili, per l’estrema animazione del modellato e degli impianti, alle precedenti di soggetto sacro. Ma intanto l’organismo scultoreo si sarà sviluppato nello spazio (Uno spazio per vivere è l’intestazione del periodo dal ’57 al ’70), ora qualificato propriamente come ribalta, o spazio di manifestazione pubblica, mentre la forma plastica sempre di modellato mosso, si sarà alquanto rinsaldata, a imprimere una più decisa identità figurale ai corpi magmatici degli esordi negli anni Cinquanta. Corpi nei quali il giovanissimo Sciavolino fissava, peraltro senza in qualche modo contrassegnarla, l’immagine del bracciante occupatore di terre, violentato dalle forze dell’ordine, che lo aveva folgorato nella sua infanzia siciliana.
La scelta di attestarsi su un’area di confine, di registrare e testimoniare la “temperatura” esistenziale e, in modo sovente esplicito, la contingenza politica di un’epoca, ha comportato per Sciavolino un impegno personale alquanto faticoso. Si trattava, difatti, di contemperare due piani o funzioni: la lucidità della mente che intuisce, discerne e progetta, e infine controlla e conduce al suo porto estetico i processi formatori, e la reattività dei sensi al flusso delle emozioni legate al vissuto, esse pure da somatizzare, ossia da mettere in opera nel corpo plastico e negli impianti spaziali della scultura. Tra vigilanza e abbandono, nelle diverse stagioni e nell’evolversi dello stile, Sciavolino ha portato avanti una scultura di indubbia qualità formale e intensità espressiva, ricca di soluzioni originali anche grazie alla sua straordinaria capacità di intendere ed elaborare le proprietà dei più diversi materiali e procedimenti tecnici. Una scultura che peraltro, proprio perché estranea al formalismo e aperta ad accogliere sensazioni e memorie soggettive, non ha mai conosciuto la ripetizione, la cifra stilistica, la formula d’uso corrente, non mancando all’artista gli stimoli della vita a cercare nella riserva dell’immaginario forme e figure inedite cui affidare di volta in volta i ruoli del racconto scultoreo.
Con l’avanzare degli anni Settanta, la scultura di Sciavolino assume sempre più un carattere urbano, per la tipologia degli spazi d’ambientazione e le situazioni rappresentate (Costruttori di Cartelloni, 1965). Sul proprio retroterra tra informale ed espressionista Sciavolino innesta altri elementi linguistici e culturali. Ad esempio, le agili strutture lineari di Calder o le riduzioni segnaletiche della pop. Sfocia così in un ciclo-chiave di esplicita teatralità, che è da porsi tra le prove più interessanti della scultura di “situazione” italiana, sul piano delle esperienze di Alik Cavaliere e di Mario Ceroli. Cito Ieri, oggi… domani? (1966) e Fahrenheit 124 (1967), sculture in parte plastiche, in parte oggettuali, costruite come palcoscenici su cui si sviluppa un’azione, talora in sequenza cinematografica.
Il passo successivo è la scultura-oggetto nella quale lo spazio (chiuso, incluso, aperto-chiuso), costruito mediante minimi elementi strutturali e di ambientazione, ingloba le figure e le sigilla, bloccandole nella flagranza della loro azione violenta. Della quale, peraltro, sono i motori e le vittime, in quanto il funzionamento della macchina che le contiene e le pone in antagonismo, è a circolo chiuso. Un automa. Siamo all’esperienza cruciale di But cruel are the times e alla abbreviazione cifrata degli elementi formali ed espressivi: il blocco plastico, lo schiacciamento dei volumi, la profilatura delle forme, l’oggettivazione esasperata e persino sgradevole delle figure ridotte a sagome meccanicamente articolare. È questo, per Sciavolino, il modo di rappresentare l’uomo che Marcuse definiva “a una dimensione”.
Mi pare sintomatico di una certa autonomia intellettuale il fatto che Sciavolino sentisse il bisogno di raffreddare il linguaggio e, in definitiva, di scegliere un osservatorio distaccato da consentirgli l’esercizio della ragion critica, proprio nel momento in cui il polso del mondo occidentale faceva registrare pulsazioni parossistiche e una temperatura alquanto elevata. I fatti sono noti: la contestazione giovanile partita dai campus americani su temi civili quali la discriminazione razziale e la parità dei diritti; quindi la critica dell’autoritarismo, la contestazione della guerra in Vietnam, della politica imperialista, infine dello stile di vita americano, con i suoi alienanti rituali consumistici. In Europa, l’avvio è con il “maggio” francese. In Italia la protesta giovanile coinvolge la classe operaia e assume una forte valenza politica, connotata addirittura in termini rivoluzionari. Dopo il ’73 il movimento degenera nella lunga stagione del terrorismo, culminata nell’assassinio di Aldo Moro (1978). Furono anni di “piombo” nero e rosso. All’iniziale partecipazione euforica, seguì il riflusso nel privato, il disimpegno, la consegna della politica agli opposti estremismi. Dal sogno luminoso dell’immaginazione al potere al risveglio sulfureo della lotta armata, furono anni crudeli. Come tali li visse Sciavolino, e ne sintetizzò il senso nell’espressione con cui siglò le opere realizzate tra il ’71 e il ’76: But cruel are the times, appunto. Crudele lo fu, quel tempo, perché lasciò germogliare la grande illusione generazionale, non meno che per lo strazio del disincanto scandito dagli scoppi neri di piazza Fontana, di piazza della Loggia, del treno “Italicus”, e da quelli rossi degli attentati e delle uccisioni siglati BR. Sciavolino fissò nella scultura dell’epoca l’ambiguità di quell’altalena tragica, permutando le urgenze della cronaca politica nella macchinosità allarmante dei suoi teatrini di raggelata efficienza sado-maso, che sono essenzialmente metafore del gioco al massacro della funzione intellettuale di fronte al tradimento della storia. E alla categoria della storia, prima che a quella della politica, occorrerebbe richiamarsi per collocare nella giusta luce l’opera di Sciavolino degli anni Settanta. Un decennio che include La Questione, opera che per l’eccezionale impegno di concezione ed esecuzione e la singolarità degli esiti, determina una svolta decisiva; e il ciclo Discorso sui materiali del far scultura per interposto Marat, che mette a fuoco la figura del Giacobino assassinato nel quale si identifica l’artista medesimo. E qui si apre il discorso sull’altro aspetto della strategia di Sciavolino messa in atto per parlare con sufficiente lucidità del proprio difficile tempo. Dico la lettura della storia sotto specie metaforica, come luogo proiettivo del rapporto conflittuale tra l’artista e la sua musa. Non a caso in But cruel are the times Sciavolino compare per la prima volta sulla scena, sia in effige sia sotto diversi mascheramenti, come protagonista inevitabile in quanto filtro degli eventi nella forma scultorea. Non può esserci neutralità nella sua presenza, rispetto all’arte e rispetto alla vita, e dunque alla storia, poiché nel gioco creativo egli investe il carico completo della sua umanità.
Ne’ La Questione Sciavolino veste i panni, anzi la nudità corporale, di Pier Paolo Pasolini. Il tavolo-tribunale della Questione è imbandito di oggetti della quotidianità e di simboli delle ideologie. Lo occupano i mezzibusti di intellettuali e uomini di potere, di ideologi e artisti qui convenuti come a una laica ultima cena. Convenuti a giudicare – sembrerebbe – le figure ignude di un uomo e di una donna; in realtà dal silenzio di un uomo e di una donna essi sono interrogati, credo senza speranza di risposta, intorno alle grandi questioni del potere, delle ideologie, dei conflitti, e della felicità possibile in una dimensione della vita sociale ispirata al sentimento della giustizia. Tutto è immobile in questo palcoscenico, in attesa che scatti l’azione, in questo teatro di potenziali mutazioni che investono tutti i soggetti e i contesti implicati: il popolo, la classe politica, gli intellettuali, gli ideologi, la dirigenza industriale. E una presenza che incarna il genius loci, una lingua, una tradizione: Ignazio Buttitta, poeta popolare di una sicilianità in cui risuona l’oralità dell’antico aedo. Chiamato al gioco delle parti, allo scambio dei ruoli, ogni personaggio convenuto al grande tavolo, da protagonista di un’auspicabile dinamica civile, può trasformarsi in soggetto di giudizio. Comparendo sulla scena in maschera pasoliniana, Sciavolino rende omaggio all’artista e all’intellettuale scomodo, ereticale, scandaloso, e alla sua sofferta funzione di autocoscienza critica della sinistra italiana, e mette in “questione” se stesso, ovvero l’identità sua di artista e il ruolo della scultura nella più ampia problematica culturale del tempo.
Nel Marat l’ottica di Sciavolino si fa decisamente individuale, sullo sfondo del grande evento collettivo, la Rivoluzione. Con queste sculture assai controllate sul piano formale, Sciavolino opera una sorta di estraneamento delle figure dal loro referente storico, assumendole come metafora dell’arte al cui interno si celebra l’intero dramma esistenziale dell’artista.
Intorno alla figura emblematica di Marat ruota certo l’universo della Storia, incontrata a un punto di massima e deflagrante manifestazione, come è una rivoluzione. Ma sullo sfondo della rivoluzione, il movente politico arretra per un più sottile ragionamento intorno all’ambivalenza identità-alterità, in cui consiste lo specifico concettuale dell’arte. Marat e Carlotta, l’artista e la sua musa, sono le figure antagoniste necessarie l’una all’altra, nel gioco delle parti che lo scultore conduce con il suo percorso – scandito in nove stazioni scultoree ognuna contrassegnate da materiali e modalità formative diversi – attraverso la stanza da bagno, la vasca-sarcofago, l’intimità di un uomo che muore per voler conoscere, e in quanto conosce, in Carlotta, la propria anima. Ecco! Sulla ribalta della storia, ovvero nel luogo della scultura che per interposto Marat ne è lo specchio, Sciavolino fa irrompere le latenze interiori, le tensioni, gli ideali, gli umori, le passioni. Insomma, il vissuto. È un coacervo che pretende rappresentanza e che all’atto pressoché rituale del sacrificio supremo – quasi una liturgia di morte-resurrezione: la vasca da bagno di Marat è canòpo dell’anima, bacino iniziatico di purificazione – acquisisce un’alta funzione simbolica, oserei dire di elevazione mistica, pur nella laica appartenenza del tema.
Per Sciavolino la scultura è stata anzitutto luogo concreto della parola, della presenza, del coinvolgimento. E parlamento dovremmo chiamare il nostro ragionarne. La scultura è stata per lui visibile parlare, provocatoria animazione contigua all’azione drammatica. Un parlamento in forma di teatro plastico. Il filosofo Louis Althusser, a proposito della Questione, ne sottolineava – Pour provoquer l’immobile à sa vérité: le mouvement qui change tout, queste le parole – il carattere di apparecchiatura scenica che rimette in moto il pensiero, sommuovendo l’animo, e determina nello spettatore un cambiamento, se non proprio una catarsi nel senso della tragedia greca. In questa vocazione a una scultura di sintesi dell’immagine e della parola, nella quale la presenza e anche l’urgenza della storia sovente assumono l’intonazione popolare e simbolica del mito, si manifesta la sicilianità di Enzo Sciavolino. È l’onda lunga di una tradizione che va dai classici a Pirandello a Sciascia a Consolo, e che come scultura, nel corso degli anni Sessanta e Settanta, Sciavolino ha interpretato con forme linguistiche assai vicine al teatro della crudeltà di Arthaud e una logica performativa da Living Theatre. Con gli anni Ottanta è poi gradatamente pervenuto a una più intensa concentrazione lirica, sino all’evocazione dell’innocenza come utopia consegnata al sogno e alla leggerezza dell’immaginario. Anche nel senso dell’evocazione che rimanda alla dimensione mitica, non a caso in questa sede rilevata e argomentata da due scrittori di ampio respiro mediterraneo quali Tahar Ben Jelloun e Vincenzo Consolo, e da Luca Antonini assunta quale materia d’una riflessone poetica da teatro di parola. E si intende che Sciavolino legga la quotidianità di gesti, atti, situazioni vissute dalle creature attraverso la lente poetica di miti fondativi (in primis quello della creazione nell’Eden originario) e delicate visioni, contigue al sogno, di un’infanzia del mondo da riscoprire, per restituire senso e durata a una realtà contemporanea che ormai percepiamo come un trascorrere effimero.
Nel corso degli anni Ottanta e Novanta e sino al presente, Sciavolino ha concesso sempre più spazio alla dimensione non evasiva o letteraria o archeologica del mito, da lui inteso quale recupero di senso, appunto, in un tempo sempre più disancorato dai radicali antropologici della cultura, al cui svuotamento non sopperisce la cultura tecnologica pur portatrice di nuovi miti. Su questa esigenza primaria nascono i grandi legni, i marmi e i bronzi dei cicli Il tempo e la memoria o della perdita dell’infanzia (1981-1990), Frammenti. Incontenibile leggerezza (1990-1996), Il circo degli angeli (1996-2007), opere di registro espressivo e di ispirazione poetica per molti versi in antitesi a quelle delle precedenti stagioni, ma delle quali raccolgono e sviluppano alcuni temi in termini di finissima evocazione poetica. Rimane confermata la concezione teatrale dello spazio, inteso come luogo d’azione. Specie nelle grandi composizioni d’ambiente o di situazione, ove cioè si pone l’accento sulla funzione recitativa del contesto oltre che sulla eloquenza simbolica dei gesti. Si osservino le grandi opere in legno: La tendina (1986), Le onde (1986), L’albero della libertà (1986-87), nelle quali si prefigurano riconoscimenti e rivelazioni domestiche ed edeniche, nell’annunciarsi e nel compiersi di un idillio amoroso; e il bronzo Ricercare (la scala), opera nella quale assistiamo a una sequenza di azioni sviluppate nella continuità dello spazio-tempo e nell’unità visiva del luogo.
Il tempo e la memoria è un modo di fare storia affidandosi non più a un referente documentario, ma alla drammaticità ed ambiguità evocativa ed espressiva – teatrale, appunto – di oggetti forme figure ormai assimilati alla funzione magica e taumaturgica, e comunque epifanica, delle reliquie o degli oggetti che consistono propriamente nel loro simulacro. Nulla cambia se l’artista tocca di volta in volta tasti diversi, su una gamma che va dalla passionalità all’ironia, della citazione poetica alla imbalsamazione quasi poliziesca dei reperti di vita quotidiana in teche-sarcofagi che paiono luoghi dell’esilio per la preservazione, più che della memoria. Bastino gli esempi del Gramsci (1987) e delle numerose nature morte su cavalletto e teca in plexiglass a illustrare la versatilità allusiva ed espressiva della scultura degli anni Ottanta e seguenti, in legno e in marmo. La prima è un’opera di spiritualizzata intensità, dalla materia prosciugata, resa pura essenza e fervore interiore; le altre, egualmente impostate sul concetto della reliquia, sono teche della pittura e della scultura posate sul cavalletto, vere e proprie simulazioni d’una natura che, esposta sotto vetro, poniamo gli animali imbalsamati o la frutta d’alabastro (Piano inclinato, Sarkofag, 1986), cita nella scultura il simulacro di una natura morta pittorica. Se Sciavolino non l’avesse scolpito, in legno reso vivo di luce astrale con l’artificio delle fibre ottiche, sarebbe stato da invocare un Angelus Novus alla Klee, creatura alata portatrice del messaggio. L’angelo di Sciavolino, lo sguardo in stupefatta contemplazione d’un mondo di simulacri, impronte, memorie di perdute integrità, è portatore di una bellezza estraniante e a suo modo magnetica, pervasa del fascino sottile del tempo che consuma l’essere nel suo fluire, e che meglio si coglie nei frammenti marmorei.
E a proposito del marmo che in questa fase entra da protagonista nella scultura di Sciavolino, vorrei sottolineare la particolare attenzione ora posta alle possibilità di modulazione poetica della forma offerta in primis dai marmi bianchi o policromi, quindi dagli altri e diversi materiali, affrontati e modellati con una delicatezza di mano da considerarsi già in sé un atto di amorosa comunicazione. O meglio, di svelamento, poiché ai materiali Sciavolino consegna non già, o non solo, l’immagine del mondo o del sogno evocato, ma la sinestesia delle molteplici sensazioni indotte allo sguardo dalle qualità intrinseche della materia. Qualità sensoriali che già introducono il clima di “levità” del sogno, da cui si dipana il racconto. I Frammenti in marmo candido, talora parzialmente dipinto, sono momenti della quotidianità esemplati sui frammenti di scavo del mondo classico, ossia su una testimonianza della continuità della memoria nel tempo. Dai frammenti scaturisce il ciclo Incontenibile leggerezza (1991-1992), una poetica scalata della tenerezza e della grazia a un cielo ancora possibile, da assegnare ai fanciulli e ai poeti, che ne riconoscono la voce nel proprio cuore. Dichiarava Sciavolino nel 1993: «Propongo frammenti di storie, di natura, di realtà che sono porzioni di sogni, di memoria nella battaglia per la verità, che è poi la poesia». Nelle opere sino al presente egli non ha cessato di tentare la via della favola e dell’apologo mediante immagini di incantata semplicità. Nel trittico della “leggerezza” un putto alato, scala una corda ancorata al cielo; un bimbo cavalca una scopa stregata; una bimba fa l’altalena, con sul capo un cielo di fronde gemmate. Più oltre la scena di Sciavolino si popola di altri eroi in sedicesimo sotto specie di putto alato, impegnato come un auriga classico a guidare un destriero a dondolo (Cavaldondolo, 1996-97); o a rivelare la sua appartenenza celeste oscillando Agli anelli (1994); o a cavalcare un ippogrifo con regale portamento (Ippogrifo, 2007); o a bilanciarsi su una corda tirata tra due aerei trampolini, sulla vertigine del vuoto (Funambolo, 2007); o a tentare altre acrobazie e sfilate e apparizioni e viaggi, nel circo della terra e dei suoi trapezi o sulle onde del mare, che Sciavolino ha raccolto in bacili di bronzo o sezionato nel marmo delle sue isole-stele. Credo non sia un caso che proprio in questa sua matura stagione proprio con i protagonisti di queste sue favole intorno agli idilli delle creature nel candore dell’Eden ritrovato della poesia, Sciavolino abbia creato alcune importanti opere collocate all’aperto, e sempre in luoghi di incontro della gente.
Con il tempo e la memoria o della perdita dell’infanzia Sciavolino rovescia la visione del mondo dell’infanzia: dalle favole vissute come proiezione possibile della realtà, alla realtà del tempo presente di disincanto e di disillusione, non vivibile altrimenti che sotto forma di simulacro, finzione, metafora. Per uno scultore di tempra incisiva come Sciavolino, codesta professione metalinguistica pare un ripiegamento di vago sapore intimista, quasi una fuga dalla realtà. A me sembra che nelle sue teche reali o ideali, l’artista “imprigioni” i frammenti di un sogno da salvare, per rigenerarlo e rilanciarlo nel circuito di un mondo che ha bisogno di siffatti messaggeri. In uno dei suoi marmorei “frammenti” Sciavolino ha raffigurato una mano che stringe una colomba. Non si sa se per trattenerla prigioniera o se per liberarla. Tocca a Sciavolino sciogliere la nostra incertezza di passeggeri dell’astronave terracquea che ci conduce come un’arca nel diluvio. E che possa tornare, la colomba, con un ramoscello di olivo.