Gonzalo Álvarez García
I ritratti fotografici di Elsa Mezzano
Nella creazione di una scultura o di un dipinto il rapporto tra l’artista e la materia dell’opera è diretto. Nella creazione di una fotografia artistica il rapporto è mediato da uno strumento meccanico che, se da un lato esalta i profili dei soggetti e decanta le tonalità della luce e delle ombre, dall’altro sembrerebbe raffreddare la partecipazione dell’artista alla gestazione della sua opera.
Ma, allo stesso modo che la scultura non si riduce alla collocazione delle tre dimensioni della materia in un determinato spazio e la pittura non si esaurisce nell’estensione di linee e di colori sulla superficie piana della tela, così l’opera d’arte fotografica non si limita alla sapiente accoglienza della luce e delle ombre nell’occhio della macchina fotografica. Ciò che fa di una fotografia un’opera d’arte non viene né dal diaframma né dall’obiettivo dello strumento ottico, ma dalla sensibilità dell’artista. Ho letto recentemente un libro delizioso, “Taccuino di viaggio” del pittore-scrittore triestino Paolo Crevi Kervischer. Il sottotitolo del libro è “Ritratti di poeti”. Sono trenta poeti a ciascuno del quali Kervischer ha dedicato una brevissima nota biografica e un acquerello. Ciò che è venuto fuori è un’inquietante rassegna di trenta esseri umani che con la poesia hanno cercato di definire se stessi e di inquadrare il mondo in cui ci troviamo a vivere. Questi ritratti fotografici di Elsa Mezzano sono biografie istantanee, racconti veloci come fotogrammi. Il sostantivo ritratto, dal verbo latino retràhere, ha tra i suoi significati quello di estrarre e di tirare indietro: esprime la volontà del fotografo di estrarre qualcosa dal suo segreto nascondiglio e di fermare qualcuno che, se non trattenuto dall’artista, rischierebbe di precipitare nel mare dell’oblio.
Immagine, figurazione, icona, rappresentazione, spettro, maschera, metafora sono sinonimi della parola ritratto. Tutte queste parole indicano l’indeterminatezza e l’ambiguità della nostra esistenza. Siamo una infinita sequenza di immagini, di rappresentazioni più o meno teatrali, di maschere, di metafore.
Metafore di che cosa? Shakespeare e Calderòn della Barca per esprimere ciò che intendevano per esistenza umana si rivolgevano alla parola sogno. Volevano dire che siamo una impalpabile teoria di immagini oniriche. Elsa Mezzano prende una di queste infinite immagini di noi e la salva per sempre. Per un sempre temporale, naturalmente. E con essa ci racconta uno degli infiniti racconti in cui è scandita la nostra biografia.
Tra i sinonimi del verbo ritrarre ritroviamo pure parole come riscattare, redimere, liberare. Elsa Mezzano libera quell’oscuro mistero, o enigma, che ogni cosa e ogni persona è senza rendersi conto di esserlo. Che cosa Elsa Mezzano ha messo di suo nel liberare questa fugacissima metafora di noi stessi? Perché la contemplazione di questi ritratti fotografici di Elsa Mezzano (sebbene le nostre anime siano state ammaestrate a nutrirsi quasi esclusivamente di immagini), scatena nel mio intimo quel turbamento che soltanto la contemplazione dei ritratti etruschi nel Museo di Volterra provoca?
Palermo, 23 Febbraio 2003